Capitoli 7-8-9

I segni dei tempi in un mondo che cambia

(Suggeriamo i capitoli 7, 8 e 9 per l’hashtag #alzati)

Capitolo 7

I cambiamenti, o mutazioni che dir si voglia, provocati dall’uomo sul nostro pianeta sono indicibili e segnano lo scarto tra sviluppo e progresso. Ecco che allora il tema del rispetto del Creato è davvero una questione centrale, guardando al futuro. Esso va ben al di là dei cambiamenti climatici, del buco nell’ozono e riguarda in generale le condizioni di vita della gente. Basti pensare all’abusivismo edilizio e al conseguente dissesto del sistema idrogeologico, per non parlare dell’inquinamento o del crescente numero di residui solidi urbani che contaminano il nostro povero mondo. Eticamente parlando, tutto questo è sintomatico di una sorta di delirio di onnipotenza che trova il suo fondamento nell’egoismo umano. Ma perché proprio oggi, all’inizio del Terzo Millennio, le meraviglie del creato sono così in pericolo? Il paradosso è purtroppo sotto i nostri occhi: la tecnologia – che idealmente dovrebbe aiutarci a vivere meglio – si è incaricata di sostituire il lavoro umano con le prestazioni delle macchine e, soprattutto, invadendo con il digitale le sfere fondamentali della vita umana. A questo proposito è bene precisare la differenza tra tecnologia e tecnica. La prima afferisce a telefonini, computer e quant’altro, mentre la tecnica è la logica, la ratio a cui si adegua la tecnologia di cui sopra. La razionalità della tecnica si traduce nel raggiungimento del massimo degli scopi con l’impiego minimo dei mezzi. I suoi valori sono efficienza e produttività. Tutto ciò che esce dalla razionalità della tecnica così intesa è insignificante, compreso l’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio – per quel tanto che spinge oltre la pura razionalità – che ha degli amori, dei dolori, delle angosce, dei sogni, delle visioni; tutti elementi che sono al di fuori dello scenario tecnico. Ecco che allora la tecnica non tende ad uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza e non redime, non svela la verità. Per usare il gergo di Umberto Galimberti, che tanto ha scritto e detto su questo tema, «funziona in maniera a-finalistica»[1]. Essa promette che, attraverso il suo intervento, ci saranno più risorse e dunque più ricchezze. Ma a vantaggio di chi? E sarà vero che tutto questo potrà accadere per il bene comune? Lo sfruttamento dell’essere umano – poco importa se in un contesto come quello italiano segnato da un crescente precariato o in quello delle periferie del mondo – è posto al servizio della tecnica la quale non ha assoluto interesse al miglioramento delle condizioni umane. Continuiamo a confondere – ed è questo il vero problema – «progresso» con «sviluppo». Lo sviluppo, dunque, è tipico della tecnica e in generale delle tecnologie ed è fine a  se stesso (potremmo dire noi autoreferenziale) ma non il progresso, che consiste invece nel miglioramento della condizione umana. Le ripercussioni di questo modo di ragionare hanno stravolto, per così dire, le regole del gioco, col risultato che abbiamo compromesso, ad esempio, il rapporto uomo natura. Sempre Galimberti, da acuto osservatore del pensiero umano, rileva che «già Martin Heidegger in Essere e Tempo diceva che quando vediamo un bosco pensiamo al legname, quando vediamo un fiume pensiamo all’energia elettrica e quando vediamo il suolo pensiamo al sottosuolo. È cambiata la percezione della natura che non è più pensata come abitazione dell’uomo»[2]. Con queste premesse è evidente che l’invasività umana negli ecosistemi stanno determinando una crisi ecologica che richiede una risposta globale.  A questo proposito è fondamentale leggere un’enciclica, la Laudato Si’, firmata da papa Francesco, rivolta a credenti e non credenti, che non solo rispetta fedelmente lo spirito del Concilio Vaticano II, interpretando i segni dei tempi alla luce della Parola di Dio, ma contrasta profeticamente il pensiero debole oggi dilagante un po’ dappertutto. Prendendo lo spunto dall’invocazione di San Francesco d’Assisi, “Laudato si’, mi’ Signore”, papa Bergoglio mette in evidenza le questioni cruciali del nostro tempo, quali, ad esempio “l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta; la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso; la critica al nuovo paradigma e alle forme di potere che derivano dalla tecnologia; l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso; il valore proprio di ogni creatura; il senso umano dell’ecologia; la necessità di dibattiti sinceri e onesti; la grave responsabilità della politica internazionale e locale; la cultura dello scarto e la proposta di un nuovo stile di vita” (16). Si tratta di temi interconnessi che stanno a cuore al mondo missionario, in prima linea nel denunciare gli effetti disumanizzanti di certa globalizzazione. In questa prospettiva, possiamo dire che Papa Francesco ha avuto la perspicacia di cogliere la sfida della complessità. Noi stessi “siamo terra (cfr Gen 2,7). Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora” (2). Il termine complesso deriva dal latino “cum + plectere”, che significa letteralmente, “con intrecci”, sottintendendo l’estrema difficoltà nel comprendere, ad esempio, la complessità dell’eco-sistema, senza scadere in banali semplificazioni. Per affrontare correttamente un fenomeno complesso, occorre conoscerlo nei dettagli, negli effetti, nelle cause e non solo come semplice analisi delle parti, perché il risultato finale non è la semplice somma delle componenti. Questo significa, guardando alla scottante questione migratoria, che questa, se opportunamente valutata, non può prescindere dalle cause che la generano (guerre, sfruttamento delle risorse da parte delle multinazionali, inquinamento, povertà…) e dalle difficoltà sociali, politiche, legislative ed economiche dei Paesi di accoglienza. Tutti questi fattori, interagiscono tra loro, a volte rendendo la matassa estremamente intricata e difficile da dirimere. Per questi motivi occorre essere pensanti, operando un sano discernimento se vogliamo, come credenti, segnare la svolta, quella dell’agognato cambiamento.  A questo proposito, papa Francesco dimostra di essere – inutile nasconderselo – l’unico vero statista sulla scena internazionale in grado di leggere i fatti e gli accadimenti contemporanei con la preoccupazione di affermare la “Res publica”, cioè il “Bene Comune” dei popoli. Le analisi, naturalmente, da sole non possono bastare: ci vogliono proposte “di dialogo e di azione che coinvolgano sia ognuno di noi, sia la politica internazionale” (15), e “che ci aiutino ad uscire dalla spirale di autodistruzione in cui stiamo affondando” (163). Ogni anno vengono pubblicate pile di rapporti sullo stato del nostro pianeta, ma purtroppo tutto poi sembra dissolversi in bolle di sapone.  Manca, davvero, quell’empatia dell’anima di cui il pontefice è latore. “È  tragico l’aumento dei migranti che fuggono la miseria – scrive sempre papa Francesco – aggravata dal degrado ambientale, i quali non sono riconosciuti come rifugiati nelle convenzioni internazionali e portano il peso della propria vita abbandonata senza alcuna tutela normativa. Purtroppo c’è una generale indifferenza di fronte a queste tragedie, che accadono tuttora in diverse parti del mondo. La mancanza di reazioni di fronte a questi drammi dei nostri fratelli e sorelle è un segno della perdita di quel senso di responsabilità per i nostri simili su cui si fonda ogni società civile” (25).  Comunque, è anche evidente, leggendo l’Enciclica, l’invito rivolto alle nostre comunità ad evitare la tentazione, sempre in agguato, dell’intimismo. Dobbiamo trovare il coraggio di confessare i nostri “peccati” contro il Creato, passando dai buoni propositi ai fatti, coniugando spirito e vita. Questo indirizzo, autenticamente missionario, deve trasparire nei piani pastorali, ma anche nel nostro modo di concepire, come cattolici, la politica, l’economia, la vita sociale, il proprio modus vivendi. Serve, insomma, per dirla con papa Francesco, una “Ecologia integrale”. D’altronde, abbiamo una grande responsabilità, come ci rammenta egli stesso, rispetto al futuro delle giovani generazioni. Esse, a pensarci bene, non sono solo il futuro, ma rappresentano un presente che ci deve vedere tutti protagonisti.

Capitolo 8

Sempre nel contesto dei segni dei tempi che stiamo tentando di scrutare, vi è un altro fenomeno diffusissimo: l’attivismo. Oggi tutto appare scandito dal movimento fisico, lavorativo, umano… Pensiamo ai viaggi frequenti, per piacere o per lavoro, o ai mille impegni che intasano l’agenda quotidiana di casalinghe, dirigenti, impiegati, religiosi, studenti e volontari. È  forse il sintomo più evidente di una frenesia planetaria che alcuni non riescono a contenere, altri invece la subiscono, addirittura ammalandosi per il troppo stress. L’attivismo è diventato un’ossessione: poco importa che sia finalizzato a fare quattrini, a cambiare il mondo, a fare quello che fanno gli altri, o schizzando a destra e manca per sbarcare il lunario, a costo di abbandonare la propria nazione. Tutti si sentono investiti dal diritto-dovere di correre. D’altronde la società è tale per cui i salariati devono per forza fare un certo numero di ore in fabbrica o in ufficio; possibilmente più che nel passato, dice qualcuno in maniera assillante. La cosa buffa è che anche coloro che potrebbero risparmiare energie, come i pensionati, si lamentano per i troppi impegni.  Ammettiamolo, però, ci piace pensare  d’essere occupati. Non possiamo farne a meno, perché fermarsi equivarrebbe ad essere spacciati. Nella testa della gente si è determinata una coincidenza tra l’essere e il fare. È indiscutibile che l’attivismo costituisca la parola d’ordine della civiltà contemporanea. L’esaltazione e la pratica dell’azione, quindi di tutto ciò che è sforzo, slancio, lotta, divenire, trasformazione, perenne ricerca, inesausto movimento, si vede affiorare da ogni dove. Non basta. Abbiamo anche acquisito una filosofia di vita al servigio di essa, che con una critica sistematica e con un forte apparato speculativo, volge non solo a creare alibi d’ogni genere, ma anche a gettare a piene mani il disprezzo sul fare altrui e, conseguentemente, sul suo stesso essere. In realtà è possibile muovere una critica e una reazione contro questo orientamento del mondo post-moderno, non in nome della stasi, cioè del non far nulla, o dell’astrazione intellettualistica, bensì proprio in nome della stessa azione: mostrando che la società di cui siamo parte integrante, in fondo, di ciò che significhi veramente azione, non sa quasi più nulla. Il cristianesimo e in particolare la missione, esigono da parte del credente un discernimento. Vi è un agire sano e un attivismo che è semplicemente febbre, esaltazione, vertigine senza centro, tanto che, lungi dal testimoniare una forza, come volgarmente si crede, esso indica soltanto un’impotenza e un’incapacità a saper gestire la vita. L’impegno nella nuova evangelizzazione non può prescindere dal silenzio e dalla contemplazione, necessari per poter accogliere gli altri in maniera equilibrata. L’attivismo sfrenato, scrive A. Nolan, è come il sonnambulismo[3]. Se anche manifestiamo le migliori intenzioni e operiamo diligentemente per il bene comune, ci rende come dei Don Chisciotte. Si combatte contro i mulini a vento, mancando quelli che possono essere gli obiettivi più nobili. La buona volontà da sola non basta. Se nella febbre di correre, di andare sempre più in là, si perdono le vere motivazioni, si rischia grosso.  Dobbiamo, oggi più che mai, trovare degli spazi per staccare la spina, disconnettendo gli impegni dalle legittime aspirazioni dell’anima. Peraltro è dimostrato che chi riesce a trovare dei momenti di raccoglimento, alla prova dei fatti sprigiona spesso una notevole inventiva. Per riflettere sul nostro vissuto e cercare un’intimità con Dio, abbiamo bisogno di fare l’esperienza del deserto. Gesù nei Vangeli, in più circostanze, si ritirava in silenzio a pregare il Padre[4], invitando gli apostoli a fare lo stesso. Domanda: in quante delle nostre comunità parrocchiali, a parte gli spazi di catechesi, si trova il tempo d’insegnare alla gente a pregare? Gli adulti, più o meno, rammentano le preghiere tradizionali a memoria; i giovani spesso non conoscono neanche il Padre Nostro. Ci lamentiamo poi se gli stessi prendono la decisione di rivolgersi verso altre forme di spiritualità. Ma noi, cosa abbiamo davvero fatto perché imparassero a pregare? In base alla mia esperienza, posso dire che sono davvero molte le persone affamate e assetate di Dio. D’altronde, per indagare compiutamente sul desiderio del Trascendente, bisognerebbe sicuramente scrivere un’intera enciclopedia. Alcuni avvertono il bisogno della guarigione interiore, altri esprimono la necessità di affrontare la vita a testa alta, altri ancora, l’urgenza di  vincere il senso di paura, inadeguatezza e sconforto determinato dalle avversità dell’esistenza umana. In questi ultimi decenni, molti, nelle cosiddette Chiese di antica cristianità, hanno abbandonato le loro comunità rivolgendosi alle religioni orientali. Senza voler disprezzare alcuna spiritualità tipica di questo o quel credo, dovremmo chiederci perché non siamo sempre stati capaci di condividere le ricchezze dei grandi maestri dello Spirito, come Santa Caterina da Siena, Santa Teresa d’Avila, San Giovanni della Croce, Sant’Ignazio di Loyola… Abbiamo sicuramente ancora molta strada dare fare. Ciò che importa è crescere nella consapevolezza della presenza e della vicinanza di Dio. Non a caso, nelle sue Confessioni, Sant’Agostino, vescovo d’Ippona, poeticamente ci ha lasciato la sua esperienza spirituale, con l’innocenza di chi ha trovato la “perla preziosa”: “Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace”[5].

Capitolo 9

Uno dei segni dei tempi che merita, infine,  di essere menzionato, peraltro spesso misconosciuto nella pastorale ordinaria, è quello della costante e crescente affermazione della società civile.  Una realtà trasversale che abbraccia il consesso delle nazioni: associazioni, gruppi, movimenti, organizzazioni fatte di uomini e di donne di buona volontà che trovano nell’impegno, soprattutto volontario, un modo per rispondere alle sfide di una società in cui la politica è in grave affanno. Spirito di cittadinanza e senso della partecipazione al “bene comune” evidenziano, antropologicamente parlando, una voglia di riscatto di fronte al crollo delle vecchie ideologie, che la Chiesa non può sottovalutare. Se vogliamo dunque trarre  un qualcosa di utile e fecondo da ciò, la valorizzazione dei laici va davvero messa in cima all’agenda pastorale, contro la tentazione sempre in agguato del clericalismo che alla lunga comporta una conseguente svalutazione della fede, resa così un vuoto senza alcuna esperienza. E’ bene rammentare, in tal senso, che l’angustia della nostra verità amministrata, quali pastori, toglie ai laici non solo i  mezzi per cogliere le sfide dell’età moderna, che essi quindi devono affrontare da soli, ma anche la possibilità di accostarsi alla vita di fede per valorizzare la loro stessa esistenza. Partendo dal presupposto che la comunità ecclesiale è un dono di Dio, bene della Chiesa per la Chiesa e insieme per la società, sarebbe auspicabile che, alla luce di quanto accade ai nostri giorni, vi fosse lo snodarsi di comunione, collaborazione, corresponsabilità,  tre momenti strettamente legati fra loro, poiché la comunione porta alla collaborazione e quest’ultima implica un’autentica corresponsabilità. È importante notare che alla definizione di christifideles[6] ha dedicato grandissima attenzione il Concilio Vaticano II, riprendendo l’originale ispirazione della Chiesa, ricusando i lunghi secoli bui in cui il laicato era divenuto secondario nella vita ecclesiale. Questo non era vero nei primi tempi della cristianità, basti pensare ai vari collaboratori laici di San Paolo, come i coniugi Aquila e Priscilla, come leggiamo nel libro degli atti degli Apostoli. Dal Concilio Vaticano II in poi si è tentato di ridare al laicato il suo ruolo specifico. Il documento conciliare che fa da primo riferimento in tal senso è la Lumen Gentium che prima di parlare del Papa e dei vescovi, afferma la centralità della comunione, utilizzando la metafora del “Popolo di Dio”. Il Concilio sottolinea che fanno parte della Chiesa, in virtù del principio di uguaglianza e di varietà[7], tutti i battezzati, con stessa dignità e stesse caratteristiche, e dentro questo popolo vengono svolti vari compiti, ruoli, ministeri. Ma il dato originario è l’uguaglianza, il far parte della comunità cristiana con la stessa dignità, secondo la volontà di Cristo. Ecco che allora la definizione dei laici intesi come fedeli i quali, “dopo essere stati incorporati a Cristo col Battesimo e costituiti Popolo di Dio e, a loro modo, resi partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono nella Chiesa e nel mondo la missione propria di tutto il popolo cristiano”. Ma per entrare meglio nella comprensione di chi sono e cosa fanno i laici, prendiamo in esame la Christifideles Laici di Giovanni Paolo II. Come nel suo stile, egli usa un’icona che fa da filo conduttore al documento: “I laici nella Chiesa sono come quelli chiamati a lavorare nella vigna all’ultima ora”. Nel Vangelo altre due volte si parla di vigna (a dire il vero una volta di vigna ed una volta di vite): sia nella parabola della vigna, quando coloro che erano stati incaricati di accudirla se ne sono appropriati senza rispettare più il padrone né il figlio, sia quando Gesù usa l’immagine della vigna dicendo: “io sono la vite e voi i tralci; se non rimanete uniti a me non porterete frutto”. In realtà della vigna si parla anche nell’Antico Testamento; citiamo a tale proposito Isaia: “Questo popolo è come una vigna che Dio coltiva… poi viene a cercare i frutti e invece di trovare uva…”. Era il rimprovero al popolo che costituiva la vigna che Dio curava e coltivava, ma poi, quando doveva dare i frutti, deludeva. Riprendendo il discorso iniziale del confronto con la vigna, dobbiamo considerare che i lavoratori sono invitati a tutte le ore e in tutte le situazioni, come donna o come uomo, come studente o come lavoratore, come handicappato o in buona salute, come sano o come malato. In questa prospettiva ciò che caratterizza i fedeli laici è l’indole secolare, il vivere la realtà del mondo. La caratteristica del laico è di essere chiamato alla pienezza della santità operando all’interno delle realtà del mondo quali la società, il lavoro, la politica, l’economia, lo sport, la stampa, insomma in tutto ciò che fa la vita di un uomo. Tutti sono chiamati a diventare santi, ma i laici, per diventarlo, non devono stare in convento o vivere segregati in un eremo. Piuttosto devono sporcarsi le mani per la causa del Regno, nella Vigna del Signore. La fede cristiana, incarnata nella storia degli uomini, non evita le sfide, neppure quella della modernità. Non elude le crisi, né si rifugia in cima ad un monte per starsene al sicuro. La fede cristiana ha una forza in sé, in ragione della sua singolarità: la forza dello Spirito che può cambiare la storia. Sicuramente, rispetto al periodo preconciliare, la Chiesa non è più segnata, prevalentemente, dagli aspetti visibili, organizzativi ed istituzionali. Ma è comunque vero che, per il fatto di essere ancora appesantita da troppi condizionamenti morali e temporali, non riesce sempre ad esprimere e a realizzare storicamente quel mistero di salvezza e di fede che dovrebbe essere la sua dimensione costitutiva, la fonte ispiratrice della sua missione. Dal Concilio Vaticano II, come accennato prima, è venuta una nuova concezione di  Chiesa come Popolo di Dio, posta prima rispetto alla Chiesa gerarchica. Giovanni Paolo II, per primo, si è impegnato a moderare gli eccessi di clericalismo e nello stesso tempo a sostenere apertamente la valorizzazione del laicato. Così, dalla realtà profonda del cattolicesimo, sono emersi nuovi carismi, nuovi protagonisti: i giovani, i movimenti, specialmente le donne. Ebbene, c’è stato tutto questo, ma si può dire di essere arrivati davvero ad una Chiesa che sia un insieme virtuoso di unità e molteplicità, di identità e di diversità? Certamente è il laicato, vero tesoro che rimane spesso nascosto nella grande massa, che abbiamo lasciato troppo ai margini. Ma è proprio qui che si trova il vero vissuto della fede praticata nelle pieghe della vita di ogni giorno; quella ordinaria, normale, di chi, tra l’altro, si impegna all’aiuto di quanti hanno più bisogno perché dimenticati, non solo dalla società, ma anche dallo Stato. Anche questa è Chiesa, ma non si può certo dire che i laici e le donne, in particolare, abbiano raggiunto una vera corresponsabilità; anzi, diciamo pure che vi è  un certo squilibrio rispetto alle aspettative conciliari. Non solo, infatti, non hanno una qualche parte, perlomeno a livello di consultazione, nelle decisioni che vengono prese in diocesi o nell’individuare tratti caratteristici del nuovo vescovo che dovrà essere nominato; non hanno nemmeno quella spiritualità di comunione propriamente laicale che aiuti ad affrontare le tante contraddizioni del mondo moderno. La sensazione che si ha, dunque, è quella di mantenere il laico in uno stato, se non proprio di minorità, comunque sempre dipendente dai chierici. Bisogna rendersi conto che è decisivo avere un popolo, soprattutto per la Chiesa che verrà. Una generazione di cristiani, dalla fede più personale, più consapevole, che dia un  ruolo diverso alla donna, sganciata da “tutele clericali”, portatrice di  creatività nei diversi ambiti della vita, specialmente in politica. Cristiani che siano uomini della speranza, della libertà, della tolleranza e della pace. E allora, ancora di più, è necessario andare al fondo delle cose e cercare di leggere il futuro che Dio ha riservato alla sua Chiesa e a quanti credono in Lui. Nei suoi disegni imperscrutabili, si potrebbe riuscire a capire come da un gran male potrebbe venir fuori un gran bene. Annullare definitivamente le distanze è l’occasione buona per metterci in un ascolto aperto e fiducioso con chi, in forza del comune battesimo, ha stessa dignità e responsabilità.

[1] https://www.green133.it/wp-content/uploads/2017/10/domus_green.pdf
[2] https://www.green133.it/wp-content/uploads/2017/10/domus_green.pdf
[3] Cfr., Alber Nolan, Op. cit.,  p. 99.
[4] Cfr., Mc 6, 30-34.
[5] Sant’Agostino, Confessioni, X, 27.38.
[6] La nuova figura del christifideles diviene fondamentale in quanto teologicamente e giuridicamente ingloba allo stesso tempo quella del laico, quella dell’ordinato e quella del religioso (nel senso ampio di tutti coloro che assumono i consigli evangelici), senza mai confondersi con uno di questi stati.
[7] L.G., 32, 41. Tali principi inoltre sono stati recepiti dal can. 204 del nuovo Codex Iuris Canonici.