Capitoli 1-2

I segni dei tempi in un mondo che cambia

(Suggeriamo i capitoli 1 e 2 per l’hashtag #incontra)

Capitolo 1

Il primo segno è quello della globalizzazione. Un fenomeno  su scala planetaria i cui effetti sono evidenti a livello socio-politico-economico, oltre che culturale e religioso.  Da qualche anno a questa parte, solitamente si parla male  della globalizzazione che viene associata concettualmente alla devastante crisi dei mercati finanziari e in particolare del lavoro. In effetti, sulla globalizzazione si può dire tutto e il contrario di tutto, trattandosi di un qualcosa che ha a che fare col progressivo allargamento della sfera delle relazioni sociali sino ad un punto che potenzialmente arriva a coincidere con l’intero pianeta. Interrelazione globale significa anche interdipendenza globale, per cui sostanziali modifiche che avvengono in una parte del pianeta avranno, in virtù di questa interdipendenza, ripercussioni, nel bene e bel male, anche in un altro angolo del pianeta stesso, in tempi relativamente brevi. Una delle sue manifestazioni tecnologiche più appariscenti riguarda la planetaria diramazione della Rete Internet, espressione di un pro­gresso comunicativo che ha innescato una vera e propria rivoluzione culturale, non minimamente riducibile ad un semplice indicatore dello sviluppo umano. Internet, infatti, si configura prevalentemente come proiezione, nella Rete, della condizione umana che consente di esplorare gli sconfinati spazi di socializza­zione quali i social network, le mailing list, i news group, i forum, le chat line, l’e-mail, per non parlare dell’erogazione di inediti servizi in ogni ambito, da quello commerciale a quello politico, religioso, militare, scientifico e ludico.  Un fenomeno, dunque, decisamente rivoluzionario che, nel suo complesso, ha determinato la creazione di nuove vie d’accesso alla conoscenza quali l’informazione, la ricerca, la documentazione e  l’aggiornamento, ampliando a dismisura il bacino delle opportunità umane. Il termine “Internet” deriva da “Interconnected Networks”, cioè “Reti Interconnesse”. L’idea su cui si fonda è molto semplice e consiste nel collegare reti di computer tra loro, creando “la Rete delle Reti” da cui deriva la metafora delle “autostrade” internettiane tanto cara a Bill Gates, fondatore della Microsoft. Nella società reale, anch’essa globalizzata, le autostrade nazionali sono arterie di comunicazione veloce, realizzate per ogni tipo di mezzo, privato o commerciale che sia, collegando reti di strade locali per facilitare il trasferimento e lo scambio veloce delle merci. Lo stesso vale per le reti ferroviarie e per quelle marittime e aeree. Ciascuna di queste reti ha un’origine, una storia, un’evoluzione, una specializzazione, modificando le loro caratteristiche nel tempo, al punto, ad esempio, che le reti ferroviarie competono con quelle aeree per il trasporto passeggeri e sono in lizza con le autostrade. Questi sistemi di trasporto, associati allo standard per visualizzare le informazioni ed interagire con esse, portano anche alla realizzazione di nuovi spazi di incontro ed interazione di coloro che li utilizzano: per analogia si può immaginare una stazione ferroviaria, un aeroporto, una stazione di servizio. Proviamo, allora, a comprendere meglio e ad approfondire il concetto dei luoghi nella “Rete delle Reti”, facendo riferimento alla metafora del “non luogo”. A parlarne è stato  l’antropologo francese Marc Augé [1] secondo cui i non luoghi sono, in contrapposizione ai luoghi antropologici, tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. Fanno parte dei non luoghi sia le strutture necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni (autostrade, svincoli e aeroporti), sia i mezzi di trasporto, i grandi centri commerciali, i campi profughi, ecc. Spazi in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione, sospinti o dal desiderio frenetico di consumare o di accelerare le operazioni quotidiane come porta di accesso ad un cambiamento (reale o simbolico). I non luoghi sono prodotti della società della surmodernità [2], incapace di integrare in sé i luoghi storici confinati e banalizzati in posizioni limitate e circoscritte, alla stregua di “curiosità” o di “oggetti interessanti”,  simili eppure diversi: le differenze culturali massificate. In ogni centro commerciale possiamo trovare cibo cinese, italiano, messicano e magrebino. Ognuno con un proprio stile e caratteristiche proprie nello spazio assegnato. L’individuo nel non luogo perde tutte le proprie caratteristiche per continuare ad esistere solo ed esclusivamente come cliente o fruitore. Il suo unico ruolo è quello dell’utente, definito da un contratto più o meno tacito che si firma con l’ingresso nel non luogo. Internet nasce così: un non luogo, una rete di passaggio tra luoghi, una rete di trasporto, vista come uno strumento dove pubblicare le proprie brochure da parte delle grandi e piccole aziende. La cosiddetta “disintermediazione” dell’informazione arriva subito dopo: perché rivolgersi ad una rete televisiva o ad una rivista specializzata per far conoscere il mio prodotto? Successivamente è arrivato l’Internet delle interazioni sociali, i cosiddetti social network. Un luogo di missione? Sono uno dei tanti contesti per entrare in contatto con la gente. Stiamo parlando di una realtà, quella internettiana, che comunque al di là dei servizi che essa può offrire, è “Terra di Missione”. Da questo punto di vista, è  necessario esercitare un’azione educativa sugli utenti, promuovendo responsabilità e fiducia. Infatti, uno degli errori che viene commesso frequentemente da coloro che si accostano alla Rete con un background culturale “predigitale”, è quello di considerarla come “un momento a sé stante” dell’esistenza umana.  Sì, quasi vi fosse da una parte la vita “reale” e dall’altra quella “virtuale”, sancendo una distinzione tra due distinte realtà. Per carità, si può anche vivere senza cellulare, ma i modelli e i paradigmi odierni sono un qualcosa d’ineluttabile, forme espressive, linguaggi che fanno parte del “modus vivendi” delle nuove generazioni, come anche di quelle più attardate. Per i giovani, come anche per i loro genitori, esiste solo una “Vita” che è “iperconnessa”, con il telefono e gli sms, con la posta elettronica e con il Web. Ciò che conta è farne un uso intelligente. D’altronde, secondo la strategia di Bill Gates, le cosiddette “information highways”, le cosiddette autostrade dell’informatica e dell’informazione, non sono solo il sistema nervoso digitale di questa o quell’azienda, ma anche il sistema nevralgico del “no-profit”, nelle caratteristiche di economicità ed ubiquità del network. Lo stesso vale anche per il mondo missionario che ha iniziato ad utilizzare Internet prima di molte categorie sociali, addirittura nella prima metà degli anni Novanta, testimoniando il Vangelo. L’importante è capire che dietro ogni computer c’è sempre una persona alla quale dovremmo offrire fiducia e sostegno, annunciando la Buona Notizia. E allora “cliccate e vi sarà aperto!”. Scherzi a parte, si parla spesso di missione digitale, ma in che modo è davvero possibile evangelizzare Internet?  Molto dipenderà dall’impegno delle nostre comunità nell’acquisire l’alfabetizzazione necessaria a capire la  filosofia digitale. Sebbene rispetto agli anni Novanta siano stati compiuti progressi significativi, la strada è ancora molto lunga e impegnativa. Si stenta infatti ancora oggi a capire che Internet non è di per sé un’agenzia di stampa né un’enorme bacheca planetaria, né tanto meno una biblioteca informatica. Pretendere di ridurre la rete a queste schematizzazioni non solo è riduttivo, ma rischia di pregiudicare un grande spazio di libera espressione utile ad abbattere il muro d’ignoranza e d’indifferenza rispetto ai valori del Regno, fraternità universale in primis.

Capitolo 2

Parlando dei segni dei tempi, non possiamo trascurare la questione delle migrazioni, un tema che di questi tempi divide gli animi. È sufficiente leggere i giornali per rendersene conto. Chiunque abbia vissuto in Africa – pensiamo, ad esempio, ai nostri missionari e volontari – è consapevole della complessità del fenomeno. A parte i tradizionali scenari di guerra, quasi mai è rintracciabile una sola ragione che determini l’abbandono del proprio paese: nessuno è profugo per caso. Infatti, la mobilità umana è generata da una serie di fattori che interagiscono tra loro: persecuzioni politiche, religiose, carestie, esclusione sociale, violazioni dei diritti umani… Tutte cause che generano uno stato di diffusa insicurezza e precarietà. Secondo i Global Trends dell’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr), nel 2017, il continente africano ha ospitato 24,7 milioni di migranti, contro i 14,8 milioni registrati nel 2000 a livello globale. Da rilevare che sempre nello stesso anno, stando a fonti delle Nazioni Unite, il 75 per cento di coloro che nell’Africa Sub-Sahariana hanno deciso di migrare sono rimasti all’interno del continente. Nel 2017, le prime 5 destinazioni migratorie intra-africane (paesi riceventi in ordine decrescente) sono state in Sud Africa, Costa d’Avorio, Uganda, Nigeria ed Etiopia (tutte oltre un milione di migranti). Singolare è il caso dell’Uganda, con una superficie inferiore a quella dell’Italia, che nel 2017 ha ospitato 1,4 milioni di rifugiati, molti dei quali provenienti dal vicino Sud Sudan. L’Africa, inoltre, è anche una destinazione migratoria per 5,5 milioni di persone che provengono da fuori i confini del continente, per la maggior parte dall’Asia. È evidente, pertanto, che non è corretto parlare, oggi, di un’invasione dell’Europa dalla sponda africana. Ciò non toglie che i tratti caratteristici della geopolitica africana acuiscono la fenomenologia migratoria nel suo complesso. La crisi libica ne è la conferma eclatante, innescando il perverso meccanismo della tratta di esseri umani. La vexata quaestio per molti governi africani è comunque rappresentata dal debito. Alcuni di questi sono costretti a svendere i propri asset strategici (acqua, petrolio, elettricità, telefonia, cacao, diamanti…). Qui le responsabilità ricadono sia sulle classi dirigenti locali, ma anche sulle stesse istituzioni finanziarie internazionali, le quali pretendono che le concessioni per lo sfruttamento delle materie prime, unitamente alle privatizzazioni (soprattutto il land grabbing, vale a dire l’accaparramento dei terreni da parte delle aziende straniere) vengano attuate “senza se e senza ma”, per arginare il debito. Una cosa è certa: nel corso degli ultimi dieci anni si è passati un po’ in tutta l’Africa dai cosiddetti creditori ufficiali (come i governi, il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e la Banca Africana per lo Sviluppo) alle fonti private di credito (banche, fondi di investimento, fondi di private equity) e al libero mercato. Si tratta, in sostanza, di una finanziarizzazione del debito che ha segnato il passaggio dai tradizionali prestiti, e da altre forme sperimentate di assistenza finanziaria, alle obbligazioni sia pubbliche che private, da piazzare sui mercati aperti. Si tenga presente che le suddette obbligazioni sono in valuta estera, quasi sempre in dollari e quindi sottoposte ai movimenti sui cambi monetari, sempre a discapito delle monete nazionali africane. Ciò sta generando un circolo vizioso che potrebbe compromettere seriamente lo sviluppo futuro dell’Africa. Un fattore di speranza è rappresentato, comunque, dalla creazione dell’Area africana continentale di libero scambio, avvenuta il 21 marzo 2018, con la firma di 44 paesi africani dei quali 30 hanno siglato il Protocollo sulla libera circolazione delle persone. A riprova del fatto che come scriveva Plinio il Vecchio «Ex Africa semper aliquid novi». Nel frattempo, comunque, i governi europei, almeno in linea di principio, sono disposti ad accettare i “rifugiati”, ma non i “migranti economici”. Si tratta – è bene sottolinearlo con chiarezza una volta per tutte – di una distinzione fuorviante. Ammesso pure che vi fossero solo due categorie, come affermava, ai tempi della guerra fredda, nel 1973, EgonKunz, che elaborò la suddetta distinzione, meglio nota come “push/pull theory” – coloro che partono per necessità (i pushed) e chi lo fa invece per scelta (i pulled) – il paradosso è evidente. Se il migrante fugge dalla guerra o è perseguitato da un regime totalitario può essere accolto (qualificandosi appunto come rifugiato), se invece scappa da inedia e pandemie, in quanto nel suo paese non esistono le condizioni di sussistenza, non può partire e deve accettare inesorabilmente il suo infausto destino. E dire che molti popoli del Sud del mondo sono penalizzati proprio dalla globalizzazione dei mercati che non hanno certo inventato i migranti. Al di là, comunque, delle ragioni politiche ed economiche che determinano situazioni di grave instabilità a livello continentale e dunque generano mobilità umana in Africa, il dato demografico merita una seria e attenta valutazione. Nel 1960, l’Africa contava circa 284 milioni di abitanti, mentre oggi sono oltre un miliardo (circa 1.216.000.000 abitanti). Se l’Italia fosse cresciuta allo stesso ritmo oggi gli italiani sarebbero 185 milioni. Secondo i dati Eurostat, la popolazione europea è destinata a restare pressoché invariata da qui al 2050, mentre quella africana continuerà a crescere. A metà del secolo la popolazione mondiale vivrà per il 25% in Africa (era il 13% nel 1995 e il 16% nel 2015) e solo per il 5% in Europa. Le stime degli esperti indicano anche che si registrerà un graduale e costante aumento della popolazione in età lavorativa. Nel frattempo, si ridurranno le fasce passive, sia quella troppo giovane, che quella troppo anziana, per essere considerate produttive. Un destino opposto a quello dei paesi occidentali, che saranno abitati da una popolazione sempre più anziana. Lo si evince dal cosiddetto “dependance index”, un indicatore che misura la percentuale delle persone di età inferiore ai 15 anni e superiore ai 64, rispetto alla fascia lavorativa. Se, ad esempio, l’indicatore misura il 70%, significa che ci sono 70 bambini/anziani ogni 100 persone in età lavorativa. Più alto è questo indicatore, maggiore è il numero di coloro che vivono in una condizione di dipendenza. Ebbene, nel 2010, il continente con il dependance index più alto era proprio l’Africa, con 80 persone in età non attiva (in gran parte minori) su 100 in età lavorativa. Di converso, l’Europa in quell’anno vantava un indice del 47%. L’Onu, però, prevede un ribaltamento in poco meno di un secolo. L’Africa diventerà così il continente per eccellenza della produttività, con un indice del 56% contro l’82% del Sud America e l’80% del Vecchio Continente. Da rilevare che già nel 2010, gli africani erano un miliardo, mentre gli europei risultavano essere 740 milioni. Ma c’è un altro dato sul quale sarebbe opportuno riflettere: il 31% delle 727mila persone che hanno ottenuto la cittadinanza in uno dei Paesi dell’Unione Europea nel 2015 è nato in Africa. Ed è proprio la diaspora che sarà sempre più chiamata a giocare un ruolo di ponte tra i due continenti.

[1] Cfr. Sergio Pillon,  Internet e la Missione, http://www.pillon.org/popoli/Internetelamissione.pdf
[2] “surmodernità” è un termine creato dall’antropologo francese Marc Augé nello sviluppo della teoria dei non luoghi. Con il termine surmodernità, calco dal francese surmodernité, si intende fare riferimento ai fenomeni sociali, intellettuali ed economici connessi allo sviluppo delle società complesse alla fine del ventesimo secolo, con riferimento in particolare al superamento della fase postindustriale e alla sempre più invasiva diffusione della globalizzazione nella vita degli individui. La condizione di surmodernità rappresenta il verso della medaglia il cui rovescio è stato costituito dalla postmodernità ed è definita dallo stesso Augé attraverso la figura dell’eccesso, nelle sue declinazioni di eccesso: di tempo, di spazio, dell’individuo o dell’ego.
L’eccesso di tempo si risolve in una difficoltà di pensare il tempo a causa della sovrabbondanza di avvenimenti del mondo contemporaneo. Quello di spazio è anch’essa una trasformazione accelerata del mondo contemporaneo, che porta, da un lato al restringimento del pianeta rispetto alla conquista dello spazio, dall’altro, alla sua apertura grazie allo sviluppo dei mezzi di trasporto rapido. In questa dimensione nascono e si moltiplicano i non luoghi. L’eccesso di ego infine, si manifesta nel momento in cui, come avviene nelle società occidentali, l’individuo si considera un mondo a sé: si ha cioè un’individualizzazione dei riferimenti poiché l’individuo si propone di interpretare da sé stesso per se stesso le informazioni che gli vengono date.