Capitolo 3

I segni dei tempi in un mondo che cambia

(Suggeriamo il capitolo 3 per l’hashtag #vivi)

Capitolo 3

La globalizzazione, nell’immaginario collettivo,  è prevalentemente riferita al campo economico. Si tratta di un processo di integrazione economica mondiale il quale comporta, oltre all’eliminazione di barriere di natura giuridica, economica e culturale, la circolazione di persone, cose e beni economici in generale. Da una parte la globalizzazione ha determinato l’ampliamento su scala internazionale delle opportunità economiche (opportunità d’investimento, di produzione, di consumo, di risparmio, di lavoro, etc.), in particolare in relazione alle condizioni di prezzo o di costo (arbitraggio); dall’altra ha acuito l’inasprimento della concorrenza nei settori interessati dai fenomeni suddetti, in particolare tendenza al livellamento di prezzi e costi alle condizioni più convenienti su scala internazionale. Sta di fatto che il rafforzamento della interdipendenza tra operatori, unità produttive e sistemi economici in località e Paesi geograficamente distanti, ha fatto sì che eventi economici in un determinato luogo avessero poi ripercussioni, spesso inattese o indesiderate, in altri. Le recenti vicende sindacali, legate alla recessione in Europa hanno acceso il dibattito su questo tema. È innegabile che oggi vengano imposti pesanti sacrifici ai lavoratori, un po’ a tutte le latitudini. Si dice solitamente che per essere competitivi sul mercato, si debba emulare a tutti i costi il “modello cinese” che, com’è noto, ha sbaragliato l’Occidente nel suo complesso. Ma se l’Impero del Drago ha un prodotto interno lordo (Pil) che cresce a dismisura è anche per il basso costo della manodopera. Basterebbe chiederlo a tanti nostri imprenditori del manifatturiero che hanno deciso di abbattere i costi di produzione investendo in Cina. Oggi, insomma, non esistono più regole certe che affermino il primato della politica sul “business” e, nel vuoto legislativo lasciato dai soggetti nazionali, si insediano attori privati che divengono padroni assoluti, sostituendosi ai governanti.  Dobbiamo forse, come cristiani, rassegnarci alla supremazia del mercato, dove la produzione a tutti i costi cancella ogni valore, generando peraltro, come ha scritto un grande intellettuale italiano Stefano Rodotà, “una sorta di invincibile diritto naturale”? Vi sono altre strade da percorrere? Sarà possibile che il sacrosanto diritto al lavoro, sancito dalle grandi democrazie, debba essere silenziato dai fautori del liberismo più sfrenato, che pretendono di muoversi impunemente, senza freni inibitori, con la convinzione che è possibile fare incetta di braccia a qualsiasi prezzo in giro per il mondo?  La posta in gioco è alta perché, come raccontano i nostri missionari/e, vi è un bisogno crescente di giustizia in ogni angolo della Terra. Il timore nasce anche dal pericoloso sommarsi, su scala planetaria, dei costi eccessivamente elevati delle derrate agricole, con effetti devastanti sui ceti meno abbienti. A questo proposito la “rivolta del pane” che interessò nel 2011 il Nord Africa, la dice lunga. Si tratta di una crisi economica generale e persistente, che priva milioni di persone, particolarmente i giovani, del proprio posto di lavoro. A ciò si aggiunga il fatto che ogni variazione benché minima di prezzi e tariffe, dal costo del carburante ai servizi della telefonia cellulare, intacca inesorabilmente i redditi, ormai ridotti all’osso, della povera gente. Nel frattempo, molti governi sono costretti a “raschiare il barile” per far fronte alla spesa pubblica, falcidiati come sono dalla crisi finanziaria globale e dall’incertezza di un “sistema” che fa acqua da tutte le parti. Sia chiaro, dei problemi globali che assillano il nostro povero mondo e del cambiamento epocale che essi rivelano, non ci si può disfare dando del “contestatore” a chiunque provi a denunciarli. Coloro che la pensano in maniera così reazionaria, hanno già deciso di gettare la spugna, di consegnarsi prigionieri a una lettura del fenomeno “globalizzazione” che non sa prescindere da categorie diverse da quelle imposte da certi sacerdoti del “dio denaro”. Occorre, dunque, come credenti, saper leggere e interpretare i fenomeni sociali determinati dalla globalizzazione “con intelligenza e amore della verità – proprio come si legge nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa – senza preoccupazioni dettate da interessi di gruppo o personali” per un agire corretto delle politiche economiche[1].  Lo stesso papa Francesco, nella Evangelii Gaudium scrive: “Così come il comandamento “non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della iniquità”. Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è iniquità. Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare.

Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono sfruttati ma rifiuti, avanzi”[2]. Dato che un governo planetario non appartiene, almeno per ora, alle ipotesi realistiche, e comunque non può essere concepito come la proiezione su scala mondiale delle sovranità di questo o quel Paese, sarebbe auspicabile che il consesso delle nazioni si dotasse di strumenti in grado di umanizzare la globalizzazione. Proviamo ad immaginare come sarebbe l’Organizzazione del Commercio Mondiale (Wto) se fosse dotata di una struttura tripartita con i rappresentanti dei governi, degli imprenditori e dei lavoratori, in grado di determinare congiuntamente le politiche e i programmi dell’organizzazione stesse. Proprio perché si sta giocando una partita difficile, è indispensabile garantire l’esistenza di una molteplicità di soggetti dotati di diritti, attraverso regole condivise che possano ridistribuire il potere nel villaggio globale tra chi lo esercita e chi può controllarlo. Se il profitto è l’unica bussola, rischiamo davvero grosso. Ecco perché la globalizzazione è davvero una realtà bisognosa di redenzione per il bene comune dei popoli.  Purtroppo, questa lettura della globalizzazione, che ho tentato di raccontare in maniera succinta, ma spero sufficientemente chiara, non è condivisa da tutti. Vi sono non pochi cattolici, in Italia e nel mondo più in generale, che non hanno ancora compreso che questa materia non può prescindere da un giudizio evangelico. In alcune coscienze si manifesta una sorta di dissociazione tra lo spirito cristiano e le questioni del mondo. Se da una parte va riconosciuto il primato della Parola di Dio, dall’altra credo sia altamente peccaminoso fare orecchie da mercante, sentendosi spiritualmente a posto, quando in altre aree geografiche del nostro pianeta si consumano drammi indicibili come l’annosa crisi somala o la mattanza siriana. Ecco perché, anche nell’ambito delle comunità cristiane, è quanto mai urgente ricercare e rendere attuative delle strategie che consentano di prendere in mano le redini della situazione. A tal proposito, è bene rammentare come anche nella costituzione pastorale Gaudium et spes  non si guardi più alla Chiesa come societas iuridicae perfecta, chiusa nella solidità e coerenza del proprio ordinamento giuridico, ma come realtà protesa come mai verso il mondo, un mondo spesso lontano e segnato dalla secolarizzazione. Questo approccio viene definito dalla Dottrina Sociale della Chiesa con la parola “sussidiarietà”, principio che, sebbene richiamato anche dal diritto canonico, non ha mai trovato in esso piena attuazione, disattendendo, in parte, il dettato conciliare. Tale spirito consente ai cristiani, in quanto cittadini, di diventare parte attiva nella soluzione dei problemi d’interesse generale. Soprattutto in Italia, siamo abituati a pensare che qualcun altro si occuperà dei problemi della collettività. In effetti, l’anima della democrazia rappresentativa è la delega, mentre il cuore della sussidiarietà è la responsabilità. L’Italia, ad esempio, è nata come Stato fortemente accentrato, calando una coltre amministrativa e istituzionale sulla ricca varietà di autonomie preesistenti nel nostro Paese. L’articolo 5 della Costituzione afferma che la Repubblica riconosce e promuove le autonomie locali. Da lì è partito 64 anni fa, tutto un processo che ha portato l’Italia ad essere quella che è oggi, con un fortissimo pluralismo delle autonomie locali. Dal 2001 nella nostra Costituzione c’è una norma, l’articolo 118 quarto comma, che ha dato inizio ad una medesima operazione di ribaltamento dell’impostazione secondo la quale il monopolio dell’interesse pubblico era nelle mani delle istituzioni, andando ad operare però nei confronti della cittadinanza. In questa norma si dice che Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono le autonome iniziative dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà. Il fatto che dei privati cittadini si prendano cura dei beni comuni non è una novità. La vera novità è nell’autonoma iniziativa: se c’è autonomia c’è responsabilità. Un ragionamento, questo, che va esteso, nel contesto della globalizzazione, alla “res publica” dei popoli. L’attivarsi di singoli cittadini fa sì che vi possano essere delle situazioni in cui l’interesse personale è assai rilevante, come per i commercianti che si prendono cura della strada su cui si affacciano i propri esercizi commerciali, con vantaggi per tutti e in primo luogo per se stessi. In altri casi, invece, l’interesse personale è minimo e prevale quello generale, come nelle esperienze di volontariato nell’ambito della cooperazione internazionale per lo sviluppo dei popoli, o aderendo in prima persona ad iniziative in difesa dei diritti umani nel Sud del mondo. Anche questa è una missione che i credenti non possono permettersi di sottovalutare[3].

[1] Cfr. Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, § 320.
[2] EG 53
[3] Cfr., Gregorio Arena, Cittadini attivi, Laterza 2006.