Capitolo 6

I segni dei tempi in un mondo che cambia

(Suggeriamo il capitolo 6 per l’hashtag #cura)

Capitolo 6

Il tema della salute è una vera e propria urgenza, guardando al Sud del mondo. Si tratta di una sfida, peraltro, che sta a cuore a molti dei nostri missionari/e. Soprattutto dal punto di vista della testimonianza, in difesa del sacrosanto valore della persona umana. Emblematica è la figura della dottoressa Maria Bonino, una donna straordinaria che ha scritto, con la sua vita, una delle pagine più belle del volontariato italiano in terra africana. La sua improvvisa scomparsa, avvenuta in Angola il 24 marzo del 2005, dopo essere stata contagiata da un misterioso virus della famiglia di Ebola, generò un profondo cordoglio. Una vita, la sua, spesa incondizionatamente “a servizio dei bambini” con l’intento di lottare in difesa del diritto alla salute, nelle remote periferie del continente. Basta leggere le email inviate dall’ospedale di Uige nelle settimane che hanno preceduto la sua morte per comprendere l’istintiva correttezza e professionalità di Maria nell’impegno umanitario. Lanciò, senza reticenze, l’allarme sulla pericolosità del morbo mentre cominciava a mietere vittime, ma le autorità locali sottovalutarono il pericolo fino al momento in cui il contagio si estese agli adulti. Sta di fatto che la micidiale febbre di Marburg non risparmiò neanche lei che tanto s’era adoperata nel portare sollievo ai malati. Inevitabilmente, parlando sempre di Ebola, vengono alla mente i sacrifici di tante donne e tanti uomini che in questi anni sono caduti per lo stesso ideale. Come dimenticare il servizio incondizionato delle Poverelle di Bergamo nella loro missione di Kikwit (ex Zaire) nel 1995? Sei di loro morirono dissanguate per colpa di questa famigerata pandemia. Per non parlare del coraggioso Carlo Urbani, esperto di malattie infettive, che oltre a operare fresco di studi in Africa,  ebbe il merito di stanare la Sars, “polmonite atipica” tenuta nascosta per mesi dal regime di Pechino, la prima epidemia davvero “globalizzata”. Infatti, attraversava impunemente gli oceani trasmettendosi con un banale starnuto, seminando il panico un po’ ovunque. Purtroppo, Urbani divenne un personaggio per l’Italia, solo quando si spense, il 29 marzo del 2003, unica vittima italiana della Sars.  Per questi paladini della vita umana la salute non è mai stata un bene di consumo, ma un diritto sacrosanto; accesso ai servizi sanitari dunque come priorità della cooperazione allo sviluppo per aumentare gli standard di accessibilità e la qualità del servizio.

Dalla fine dell’epopea coloniale, nel Sud del mondo, soprattutto in Africa, vi è stato un dibattito tra varie scuole di pensiero sul tema della salute. Da una parte alcuni hanno investito risorse, secondo logiche privatistiche, esigendo però compensi che di fatto hanno escluso i ceti meno abbienti dalle cure. Dall’altra v’è stato un forte movimento solidaristico, legato soprattutto alle organizzazioni non governative come il CUAMM a cui apparteneva la dottoressa Bonino, che da sempre ha denunciato la difficile condizione in cui versa il servizio sanitario a livello continentale. Sta di fatto che oggi nessun Paese dell’Africa Sub-sahariana è in grado di far fronte ai bisogni sanitari essenziali della sua popolazione senza un forte e generoso contributo della cooperazione internazionale. A parte Ebola – che nel 2019 ha colpito in particolare il settore nordorientale dell’ex Zaire, l’emergenza Hiv/Aids e la crescente diffusione di pandemie come la malaria e la tubercolosi sono la cima di un iceberg. Si è infatti soliti pensare che in un ospedale africano, le patologie con cui si viene più frequentemente a contatto siano quelle legate alla cosiddetta medicina tropicale. Questo è vero solo in parte, poiché una minima quota delle patologie diffuse ai tropici trova la sua unica spiegazione nel fattore climatico. “È stato dimostrato – ha spiegato il dottor Gianfranco Morino, medico volontario da oltre 30 anni in Kenya – che il termine ‘medicina tropicale’ molte volte maschera quella che invece sarebbe più giusto chiamare medicina del sottosviluppo, del mancato sviluppo, o ancora, meno eufemisticamente, medicina della povertà. Infatti, il tragico stato di salute delle popolazioni della fascia tropicale è sintomatica non di fattori climatici, ma del fatto che questi Paesi sono caratterizzati da una terribile mancanza di risorse, soprattutto economiche, ma anche sociali, culturali, professionali”. Un diritto negato, dunque, quello della salute che esige un maggiore impegno da parte di tutti i governi a livello globale. Dopotutto, l’articolo 25 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo afferma che “ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari”.

Il dato inequivocabile è che la società civile – Ong in testa – devono continuare a battersi in ogni sede per il rispetto universale di questo diritto tanto caro alla dottoressa Bonino e a tutti coloro che credono in mondo migliore. È vero, l’impegno civile non è sempre nelle corde di coloro che siedono comodamente nella stanza dei bottoni e il dramma dell’Hiv/Aids, ad esempio, che richiede ben più della solita beneficenza o di qualche tragico “appeal” sui giornali, è il classico esempio di come l’egoismo umano non cessi mai di stupire nelle sue aberrazioni. I numeri la dicono lunga:  l’Hiv/Aids rimane la principale causa di morte tra gli adulti in Africa. Non solo. Sempre in Africa si registra oltre il 90% di tutti i decessi di malaria che avvengono nel mondo. Ed entro il 2030 le malattie non trasmissibili (cardiopatie, ictus, cancro, diabete e malattie respiratorie croniche, etc.) sono destinate a diventare la principale causa di morte in Africa. Ma attenzione, il problema è globale se si considera che sono centinaia di milioni le persone in tutto il mondo che non hanno ancora accesso ai servizi sanitari essenziali di cui hanno bisogno per sopravvivere. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) la comunità internazionale deve impegnarsi nel garantire una copertura sanitaria universale. Questo concretamente significa assicurare a tutte le persone e a tutte le comunità di ricevere i servizi sanitari di cui hanno bisogno senza dover fare i conti con difficoltà economiche. Per molti parlare di Hiv e di Aids è il passato. Ma non lo è. Non è una malattia antica è invece un’epidemia dimenticata che ogni anno uccide 380mila persone nell’Africa Sud-orientale. Un virus che, solo in quell’area, viene contratto da oltre 2mila persone al giorno. L’Hiv/Aids, è il presente per quasi 20 milioni di africani che vivono nella parte sudorientale del continente, con 800mila nuovi casi di contagio solo nel 2017. Secondo il rapporto dell’Unicef, diffuso in occasione della Giornata internazionale contro l’Aids 2018, saranno circa 360mila gli adolescenti, a livello mondiale, che moriranno per malattie collegate all’Aids tra il 2018 e il 2030. Questo significa che 76 adolescenti moriranno ogni giorno se non saranno realizzati ulteriori investimenti nei programmi di prevenzione, diagnosi e cura dell’Hiv. Naturalmente, vi sono anche buone notizie. Ad esempio, dal 2002 la Comunità di Sant’Egidio è attiva con il programma “Dream” in 11 paesi africani, offrendo gratuitamente la terapia antiretrovirale a 500mila pazienti. Si tratta di un’iniziativa nata per contrastare l’Hiv/Aids in Africa, che ha permesso a 100mila bambini di madri sieropositive di venire al mondo senza contrarre il virus. Il progetto si dipana con 47 centri clinici e 25 laboratori di biologia molecolare in Mozambico, Malawi, Tanzania, Kenya, Repubblica di Guinea, Swaziland, Camerun, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Angola e Nigeria. In questi anni, milioni di persone hanno usufruito gratuitamente del programma, che ha offerto formazione a migliaia di professionisti africani e continua a lavorare sull’educazione alla salute, il sostegno nutrizionale, la diagnostica avanzata, il contrasto della malaria, della tubercolosi, delle malattie croniche, la prevenzione e il trattamento dei tumori e soprattutto della malnutrizione. Una cosa è certa: quando si tratta dei guai altrui, noi Occidentali tendiamo istintivamente a scaricarci la coscienza, mentre facciamo bailamme e sarabanda se il pericolo è a portata di mano. Ecco che allora se un nostro connazionale colpito da Ebola viene rimpatriato da qualche Paese africano per essere curato, da mattina a sera sulle nostre televisioni, vengono mandati in onda servizi, reportage e approfondimenti. Mentre rarissimamente si parla degli investimenti per debellare le malattie principalmente parassitarie dei Paesi poveri. E dire che sono in molti a dire che “dovremmo aiutarli a casa loro”; ma questo avviene purtroppo raramente. Un esempio emblematico è quello della ricerca nel settore delle malattie principalmente parassitarie che affliggono le nazioni povere,  un impegno che non è mai stato adeguato ai reali bisogni, sia nella terapia che nella profilassi. A livello mondiale, si stima che vi siano milioni di decessi per queste patologie, un’autentica mattanza che non fa notizia. Purtroppo le popolazioni africane e del Sud del mondo più in generale, non rappresentano un target nell’ambito del marketing farmaceutico in quanto si tratta di gente con scarsa o inesistente disponibilità finanziaria. Ecco che allora se da un lato queste pandemie costituiscono un limite concreto allo sviluppo, è altrettanto vero che senza un reale progresso economico e sociale la lotta per debellarle è persa in partenza. Dal World Malaria Report 2018, pubblicato dall’OMS, risulta che i casi di malaria nel mondo è stimato intorno ai 219 milioni, con circa 435 mila decessi. Circa il 92% dei casi di malaria nel mondo e il 93% dei decessi continuano a verificarsi in Africa. Inoltre, nelle aree ad alta trasmissione di malaria, i bambini sotto i 5 anni sono particolarmente vulnerabili all’infezione e sviluppano la malattia in forma grave. E mentre la ricerca su un possibile vaccino sembra essere ancora in alto mare, soprattutto per mancanza di finanziamenti, si stima che vi siano almeno due milioni di persone che muoiono ogni anno di malaria, di cui il 90% bambini africani sotto i cinque anni. Recentemente sono stati prodotti nuovi farmaci, abbastanza efficaci a base di artemisia: la cura dura solo tre giorni e costa due dollari per un adulto e 60 centesimi per un bambino. Purtroppo, come ha denunciato ripetutamente Medici Senza Frontiere (MSF), questi farmaci innovativi sono quantitativamente insufficienti e soprattutto scarseggiano i denari per consentire ai governi dei Paesi colpiti dalla malaria, tra i più poveri al mondo, di erogare trattamenti gratuiti. S’impone pertanto una riflessione sul rapporto tra “etica della salute” ed “economia”, anche perché queste due discipline non sembrano affatto andare d’accordo. In effetti il dualismo, apparente o effettivo, non è facilmente risolvibile in quanto intervengono numerosi giudizi di valore, che non sempre sono convergenti. L’economia, in sostanza, dovrebbe mettere a disposizione degli strumenti per affrontare in maniera sistematica e consapevole le scelte, ma le decisioni che sottendono l’utilizzazione delle risorse richiedono un giudizio etico che riguarda la società considerata nel suo insieme ad ogni latitudine. La cura della salute non può essere valutata secondo logiche liberiste, come se si trattasse di una semplice attività produttiva, dal momento che l’organizzazione sanitaria deve operare con l’intento di preservare il sacrosanto valore della vita umana, prescindendo da ogni differenza di razza, religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia politica. In altre parole, la responsabilità di curare le pandemie che affliggono il Sud  del mondo non può ricadere sulle famiglie dei pazienti, che già devono lottare contro la miseria, ma riguarda, nel suoi complesso, la comunità internazionale che può e deve trovare i fondi per curare ogni bambino e ogni adulto sofferenti. Dal giuramento di Ippocrate, ai pronunciamenti del magistero ecclesiastico, alle raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) emerge a chiare lettere la necessità di un impiego, da parte dei “decision maker” in difesa della salute, un valore che non può essere banalmente mercificato come vorrebbero certi sacerdoti del dio denaro. D’altronde, è una questione di civiltà cogliere la linea di demarcazione valoriale tra un prodotto farmaceutico capace di salvare vite umane e qualsiasi altra forma di merce o bene di consumo. Come ebbe a dire papa Francesco ai medici del CUAMM il 7 maggio 2016: “La salute (…) non è un bene di consumo, ma un diritto universale per cui l’accesso ai servizi sanitari non può essere un privilegio. La salute, soprattutto quella di base, è di fatto negata – negata! – in diverse parti del mondo e in molte regioni dell’Africa. Non è un diritto per tutti, ma piuttosto è ancora un privilegio per pochi, quelli che possono permettersela”. Chi ha orecchie per intendere, intenda!